LETTERATURA FEMMINILE

“La campana di vetro”, di Sylvia Plath
La campana di vetro

Uscito in Inghilterra nel 1963, presso la Faber and Faber, La campana di vetro è l’unico romanzo scritto da Sylvia Plath1 e rappresenta una delle più importanti fonti di riferimento per comprendere l’animo della famosa poetessa. Venne pubblicato sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas, probabilmente per evitare accostamenti espliciti a situazioni e persone descritte nel romanzo. Non a caso, la madre della Plath tentò in ogni modo di ritardare l’uscita del libro in America, dove apparì sugli scaffali soltanto nel 1971.

Da sempre Sylvia Plath è identificata come emblema del femminismo e questa sua opera come manifesto dello stesso movimento, ma per apprezzare al meglio La campana di vetro, e andare oltre gli stereotipi legati alla figura della giovane poetessa, è necessario conoscere la situazione sociale del tempo e avere la giusta sensibilità.

La campana di vetro si identifica a metà tra romanzo di formazione e romanzo dai forti tratti autobiografici, a tal proposito sono tantissime le similitudini tra la vita della protagonista Esther Greenwood e quelli della scrittrice.

Il romanzo racconta la storia di Esther, figlia di emigrati, nata da padre tedesco, morto quando lei era solo una bambina, e madre austriaca. Brillante studentessa di provincia, cresciuta nella periferia di Boston, Esther vince una borsa di studio che prevede il soggiorno di un mese a New York e il praticantato presso una famosa rivista di moda2.

La ragazza si trova catapultata nell’afosa New York, dividendo il suo tempo tra balli e banchetti. Lei, che prima dell’arrivo nella metropoli non aveva mai cenato in un ristorante, si lascia sedurre dalle tentazioni giovanili grazie alle sue compagne di corso, trasportata dalla vita mondana. Una situazione, quella di Esther, invidiabile da qualunque ragazza della sua età, ma che lei non riesce ad apprezzare, soprattutto perché quelle nuove esperienze si risolvono, ogni volta, in maniera negativa.

La città era appesa alla mia finestra, piatta come un manifesto, luccicante e ammiccante, ma per quanto mi riguardava avrebbe potuto non esserci affatto.

Nonostante quella realtà cosmopolita e accattivante, la protagonista sembra bloccata in un vicolo cieco dal quale non riesce ad uscire.

Il silenzio mi fece sentire depressa. Non era il silenzio del silenzio. Era il mio silenzio.

In linea con le norme sociali, negli anni cinquanta del Novecento, la più grande aspirazione di una ragazza era quella di avere una bella casa e badare alla famiglia. Al fine di trovare un uomo per bene da sposare, il dormitorio era solito organizzare, ogni sabato sera, incontri con giovani rampolli.

Ai deludenti appuntamenti di Esther, suo malgrado, si intreccia la storia con Buddy Willard: il suo primo ragazzo, studente di medicina a Yale.

Le figure maschili all’interno dell’opera hanno sempre una connotazione negativa, a partire dal padre della protagonista, morto molto presto e ritenuto un oppressore3, a Buddy che tradisce la giovane Esther e che mentre lei è a New York scopre di avere la tubercolosi, al dottor Gordon che la sottoporrà ad una dolorosissima seduta di elettroshock, fino a Irwin con il quale Esther perderà la verginità in un rapporto quasi carnale.

Nel tempo passato a New York Esther ha modo di essere indottrinata su tutto ciò che riguarda matrimonio e verginità. A tal proposito, la madre le spedisce un articolo dal titolo In difesa della castità, scritto da una nota avvocatessa del tempo: il concetto ribadito è che tutte le ragazze debbano rimanere illibate per il proprio futuro marito e mentre gli uomini possono darsi da fare, le donne devono mantenere la loro castità in vista del rapporto coniugale.

Esther in disaccordo, trova queste idee oppressive e ingiuste, le imposizioni sociali costituiscono intorno alla sua persona una sorta di campana di vetro dentro la quale inizia a sentirsi soffocare:

L’unica cosa che non veniva presa in considerazione in quell’articolo erano i sentimenti della ragazza. […] non sopportavo l’idea che la donna debba avere una sola vita, casta, e l’uomo invece può condurre una doppia vita, una casta e l’altra no. […] Era uno dei motivi per cui non intendevo sposarmi. L’ultima cosa che desideravo era la «sicurezza assoluta» ed essere il punto da cui scocca la freccia dell’uomo. Io volevo novità ed esperienze esaltanti, volevo essere io una freccia che vola in tutte le direzioni, come le scintille multicolori dei razzi del 4 luglio.

Per la giovane Esther, in linea con il romanzo di formazione, avviene un processo di presa di coscienza della propria individualità, soprattutto come donna: contro la società, che vuole le ragazze dedite soltanto a matrimonio e figli, si staglia il suo desiderio di divenire una famosa scrittrice e magari redattore di un’importante rivista.

L’invisibile campana di vetro e la conseguente alienazione che la ragazza prova di fronte ai dettami imposti, provocano la discesa verso l’abisso interiore.

L’opprimente sopraffazione sociale degli uomini, che riflette la nota autobiografica della storia di Sylvia Plath con Ted Huges, la portano a non riconoscersi in quelle aspettative sociali che anche sua madre condivide.

Abbandonato il praticantato a New York, Esther torna nella sua provincia, decisa a dedicarsi alla scrittura ma è qui, dopo essere stata rifiutata per un corso di scrittura estiva, che inizia la sua vera e propria discesa: una sorta di catabasi nella quale la protagonista, soffocata da un futuro già deciso, tenta di avvicinarsi sempre di più alla morte, al silenzio eterno.

Vidi gli anni della mia vita in fila uno dietro l’altro come pali del telefono lungo una strada, collegati insieme dai cavi. Contai uno, due, tre… diciannove pali, ma dopo il diciannovesimo i cavi spenzolavano nel vuoto, e per quanto mi sforzassi, non riuscivo a scorgere nessun altro palo.

A questo punto l’opera cambia anche nello stile che, se inizialmente risulta più sprezzante e ironico, adesso si fa più cupo, mancano gli aneddoti legati al passato ed emergono narrazioni agghiaccianti. Il momento della totale alienazione, e di quello stato depressivo, il tentato suicidio, che riprende esattamente quello di Sylvia Plath per mezzo di un flacone di analgesici, porta il lettore a calarsi nella campana di vetro e, pagina dopo pagina, a conoscere l’intimità di Esther e della stessa Sylvia.

Le pagine più buie, nelle quali è forte la compassione per la giovane di soli vent’anni, sono quelle dedicate al suo ricovero nel manicomio.

Le immagini descritte dalla Plath risultano sature di angoscia, da quelle nella stanza per l’elettroshock, ai tentativi di suicidio che si susseguono nel corso dell’opera.

Esther, in un momento cruciale della propria esistenza, un’età di transizione, di crescita emotiva, si ritrova con la prospettiva di una vita già decisa, incastrata nei dogmi sociali della borghesia americana degli anni cinquanta del Novecento.

Dovunque mi fossi trovata, sul ponte di una nave o in un caffè di Parigi o a Bangkok, sarei stata sotto la stessa campana di vetro, a respirare la mia aria mefitica.


1 Fino a quel momento della Plath era uscita soltanto la raccolta di poesie Il colosso.

2 Allo stesso modo, anche la Plath, dopo le superiori ottiene un premio per un praticantato giornalistico a New York, presso la rivista “Mademoiselle”.

3 Altro riferimento alla vita di Sylvia Plath, come emergerà dalle poesie postume dedicate al padre.

Redazione Letturificio
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