LA CITTA DEI LETTORI

Letturificio intervista Nicoletta Verna
Nicoletta Verna

Nicoletta Verna esordisce con Il valore affettivo, libro che ha ottenuto la Menzione Speciale della Giuria alla XXXIII edizione del Premio Italo Calvino. Un esordio imperdibile con un’opera profonda ed emozionante. In occasione del festival de La città dei lettori, abbiamo avuto il piacere di rivolgere a Nicoletta Verna qualche domanda.



Il valore affettivo è il suo romanzo d’esordio e racconta la storia di Bianca, che a soli sette anni perde sua sorella Stella, in un incidente dalle circostanze poco chiare. Questo evento innesca in Bianca un forte senso di colpa e delle reazioni a catena. La storia è raccontata da lei in prima persona e ne scopriamo il disgraziato passato e il problematico presente. In questo libro d’esordio affronta temi particolarmente delicati, come il lutto, il senso di colpa, il suicidio, la salute mentale. Com’è nata l’idea di questo libro?

Il senso di colpa è un tema che mi ha sempre affascinato, io stessa ne soffro e molte volte mi rendo conto di sentirmi colpevole o responsabile di eventi che in nessun modo possono essere ricondotti alla mia responsabilità. Mi interessava analizzare, da un punto di vista letterario, le derive che un sentimento come questo assume. Può sfilacciarsi in tante direzioni diverse, la prima e più importante è che il senso di colpa paralizza, è qualcosa che continua a farci restare ancorati ad un particolare evento senza possibilità di progresso. Mi piaceva raccontare cosa succede in una vita quando non si vede futuro e l’unica speranza per l’avvenire è legata a risolvere un conto con il passato. Questa idea ha precedenti letterari illustri. Il senso di colpa in letteratura infatti è stato trattato da Dostoevskij, Kafka, McEwan. Nel mio libro, c’è una incompleta consapevolezza: la protagonista sa di avere una colpa ma non riesce a metterla a fuoco o, se la mette a fuoco, è illusoria.


Il personaggio di Bianca, la protagonista che narra in prima persona la sua tragica storia di perdita, ha un’introspezione psicologica profonda e davvero ben costruita. Bianca è un personaggio che colpisce il lettore per le manie e per l’incapacità di provare emozioni. A tal proposito, come è riuscita a dare a questo personaggio una tale profondità introspettiva e a realizzare un’indagine psicologica interessante e inquietante allo stesso tempo?

C’è stato un lungo lavoro perché trattare la malattia mentale in un romanzo è molto difficile. È facile superare il limite, soprattutto in un personaggio borderline come Bianca. Il rischio è quello che ogni motivo narrativo riconduca alla follia e questo non deve mai succedere: la follia, o qualunque altro disturbo, deve essere un elemento e mai la soluzione, sia per questioni di equilibrio narrativo, sia per mantenere la credibilità del personaggio. Ho studiato molto anche perché per lavoro, negli anni passati, sono stata redattrice di manuali di psicologia e psichiatria quindi è un tema che mi ha sempre molto affascinato. Questa esperienza e il mio interesse personale per queste tematiche sono finiti poi nella narrativa.


Un altro tema attorno al quale ruota il romanzo è il valore degli oggetti materiali, gli oggetti a cui siamo abituati ad attribuire appunto un valore affettivo: gli oggetti di cui non riusciamo a liberarci o quelli che desideriamo fortemente essere nostri. Nella storia, Bianca ha una sorta di ossessione per gli oggetti e soprattutto per la catalogazione di questi come rifiuti, un organizzazione perfetta che le permette di credere di avere il controllo sulla propria vita. Vuole parlarci di questo aspetto del suo romanzo e del significato simbolico di questi oggetti per la tua protagonista?

Gli oggetti sono protagonisti del romanzo perché è un romanzo che tra i temi principali ha anche il materialismo. L’illusione di poter comprare tutto e di poter possedere quegli oggetti non è illusorio, ma è vero. Nel libro, però, c’è una traslazione, perché Bianca crede che possedere gli oggetti equivalga a controllare il mondo e gli affetti. È una persona ossessionata dalla perdita, a partire da quella della sorella di cui si sente responsabile. La sua ossessione per i rifiuti e proprio l’illusione di controllare e seguire la vita delle cose nella loro fase terminale, cioè nel momento in cui cessano la loro funzione sociale e diventano scarti, rappresenta la mania del controllo portata all’estremo. Si illude quindi di controllare il destino degli oggetti, perché per lei sono diventati unico destinatario dei suoi sentimenti. Bianca, infatti, è anaffettiva, si obbliga a non provare più emozioni perché troppa è stata la sofferenza e quindi ripiega sugli oggetti.


Bianca sbobina interviste per un’azienda di marketing il cui lavoro è, durante i focus group, quello di studiare le emozioni del consumatore e capire in che modo direzionare su un prodotto commerciale determinate emozioni. Bianca racconta spesso del suo lavoro con un certo cinismo e con ironia. La sua è una critica alla società consumistica oppure questo aspetto le serviva per creare un fil rouge all’interno della storia?

Sicuramente un fil rouge esiste tanto è vero che i focus group compaiono sempre in un momento di snodo tra il presente e il passato, quindi è spesso il tramite che fa accendere nella testa di Bianca un ricordo e fa partire il flashback. Quindi ha una funzione di collante molto forte. La critica c’è, ma non è un romanzo dove si fa una critica sociale: Bianca è disinteressata alla politica, alla società, all’ecologia, ma naturalmente ha un occhio molto lucido. Molte delle cose raccontate nel focus group sono vere, sembrano cose incredibili, e lei ce lo racconta. Sospende il giudizio, ma crea un effetto di straniamento e nel leggere ti accorgi che alcuni meccanismi del nostro mondo contemporaneo sono un po’ distorti.


Con Il valore affettivo ha ottenuto la Menzione Speciale della Giuria alla XXXIII edizione del Premio Italo Calvino. Ho letto che questo libro ha avuto una lunga gestazione, ci hai lavorato per anni, apportando anche importanti cambiamenti alla trama. Le va di raccontarci qualcosa di questo percorso e anche svelarci, senza dire troppo della storia, qual è stata la parte del libro che ha subito maggiori rimaneggiamenti?

Parto dall’ultima domanda: tutto. È stato completamente rimaneggiato, la prima stesura era totalmente diversa da quello che poi è stato il libro una volta terminato. L’unica idea che è rimasta dall’inizio alla fine è stata quella di base, ovvero quella del senso di colpa, l’immagine di una bambina che cresce con l’idea devastante di aver causato la morte di sua sorella. Questa è l’unica linea. Da neofita, avevo messo nel libro tutto ciò che mi interessava e piaceva e questo tema forte che volevo far emergere si perdeva, sfilacciandosi tra tutte queste sotto-trame che non erano coerenti. Per capire questo c’è stato un lavoro di tecnica, di editing. Ho avuto un editor che mi ha aiutato molto a capire che, affinché il tema emerga deve essere puro e bisogna inserire nel testo soltanto quei sotto-temi che concorrono a farlo emergere e brillare. Poi sono cose che si apprendono, sono tecniche di scrittura.


Il motto de La città dei lettori è “Leggere cambia tutto”, a tal proposito ci sono dei libri da lettrice che hanno cambiato il suo modo di pensare?

Sono moltissimi quindi ne dicono due a cui sono legata per valore affettivo e sono i primi due libri che ho letto nella mia vita: Le fiabe italiane di Italo Calvino e Le novelle fatte a macchina di Gianni Rodari. Ero molto piccola e per uno strano caso inconscio, sono anche le uniche due citazioni di libri che sono all’interno del mio romanzo.



A cura di Sara Pasquini

Redazione Letturificio
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